giovedì 1 febbraio 2018

Il figlio di Saul (2015)


Ottobre 1944. Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente che 'accompagna' nell'ultimo viaggio. Isolati dal resto del campo i sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli. Testimoni dell'orrore e decisi a sopravvivervi, il gruppo si prepara alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano, Saul riconosce nel cadavere di un ragazzino suo figlio. La sua missione adesso è quella di dare una degna sepoltura al suo ragazzo. Alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti il Kaddish, Saul farà la sua rivoluzione.
Aveva ragione Jacques Rivette, la vocazione dei film che trattano la Shoah è quella di essere discussi, il rischio quello di essere contestati. Sulla materia esiste un corpo teorico che resiste e non smette di provocare fruttuose controversie: due articoli ("De l'abjection" di Jacques Rivette e "Le travelling de Kapo" di Serge Daney) e un film monumentale (Shoah) che hanno articolato ieri la relazione tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra la storia dei campi e quella del cinema. La domanda oggi è sempre la stessa, come fare a raccontare un avvenimento che per la sua dimensione e il suo peso di orrore sfida il linguaggio? Come rendere conto dell'universo concentrazionario senza sottostimarne l'orrore?

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