Un disaster movie che dosa al meglio la componente umana e quella spettacolare. E un film sulle due facce della responsabilità
Il 20 aprile 2010 sulla piattaforma trivellatrice semisommergibile
Deepwater Horizon, situata al largo della costa della Lousiana, 126
lavoratori si sono trovati immersi nel peggior scenario possibile: una
devastante esplosione, che ha causato un inferno di fuoco, undici
vittime e uno sversamento di greggio nell'oceano riconosciuto come il
più grave disastro ambientale della storia.
Mentre le televisioni di tutto il mondo si sono concentrate per mesi
sulla portata del danno all'ecosistema, il film di Peter Berg torna
sulla piattaforma nel Golfo del Messico (ricostruita, poiché la British
Petroleum si è ben guardata dall'offrire supporto alla produzione) per
raccontare la giornata degli uomini e dell'unica donna sulla Deepwater,
la lotta strenua per la sopravvivenza e gli atti di estremo coraggio che
si sono verificati in quell'occasione. Il risultato è un disaster movie
avvincente e intelligente, che ha saputo indovinare la giusta
dimensione, un equilibrio riuscito tra dramma umano e componente
spettacolare, e nel quale non c'è spazio per la vaghezza tecnica e
logistica che in molti blockbuster funziona da alibi e da riempitivo.
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