
John May è un funzionario comunale dedicato alla ricerca dei parenti di
persone morte in solitudine. Diligente e sensibile, John scrive discorsi
celebrativi, seleziona la musica appropriata all'orientamento religioso
del defunto, presenzia ai funerali e raccoglie le fotografie di uomini e
donne che non hanno più nessuno che li pianga e ricordi. La sua vita
ordinata e tranquilla, costruita intorno a un lavoro che ama e svolge
con devozione, riceve una battuta d'arresto per il ridimensionamento del
suo ufficio e il conseguente licenziamento. Confuso ma null'affatto
rassegnato, John chiede al suo superiore di concedergli pochi giorni per
chiudere una 'pratica' che gli sta a cuore e che ha il volto di Billy
Stoke, un vecchio uomo alcolizzato che aveva conosciuto un passato
felice. Di quel passato fa parte Kelly, la figlia perduta per orgoglio
molti anni prima. Lasciata Londra per informarla della dipartita del
genitore, John si muove tra i vivi e assapora la vita che ha il volto di
una donna e il sapore di una cioccolata calda.
Quando si muore si muore soli, cantava Fabrizio De Andrè e scriveva
Cesare Pavese che avrebbero potuto immaginare e mettere in versi il
protagonista di
Still Life, scritto, diretto e prodotto da
Uberto Pasolini. Un film rigoroso, coerente, denso, profondo
nell'immagine e nel senso, che ha la precisione e la lentezza di Tsai
Ming Liang e la fissità e la dimensione iconica di
Ozu. Non sembrino esagerati i riferimenti perché
Still Life è un'opera importante che respira cinema dall'inizio alla fine.
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